C’è una data spartiacque per il sistema pensionistico, una data in cui nasce la riforma Dini e cambia il sistema pensionistico italiano, meglio dire il calcolo pensionistico ed è l’anno 1995 con la legge 335. Ci fu la necessità di introdurre una disciplina organica della previdenza complementare con l’istituzione dei fondi pensione ad adesione collettiva negoziali e aperti (decreto legislativo 124/1993). Con la riforma Dini si è passati dal regime retributivo al contributivo e la differenza è sostanziale: nel regime retributivo la pensione corrisponde ad una percentuale dello stipendio del lavoratore, dipende dall’anzianità contributiva e dalle retribuzioni, soprattutto quelle percepite nell’ultimo periodo della vita lavorativa; nel regime contributivo invece l’importo della pensione dipende dall’ammontare dei contributi versati dal lavoratore nell’arco della vita lavorativa. Il passaggio dall’uno all’altro regime di calcolo è avvenuto gradualmente, distinguendo i lavoratori in base all’anzianità contributiva. Si sono così create tre categorie di lavoratori, lavoratori che al 31/12/1995, con almeno 18 anni di contribuzione, con un valore economico della pensione legato agli ultimi anni di stipendi e che rientrano nel regime cosiddetto retributivo; lavoratori che al 31/12/1995 avevano meno di 18 anni di contributi rientrano invece in un regime misto e la pensione viene calcolata con un sistema retributivo fino al 1995 e successivamente contributivo; infine la riforma Dini ha previsto per tutti gli assunti a far data dal 1° gennaio 1996 un sistema contributivo (per poi arrivare al 1° gennaio 2012 alla riforma Fornero, con un sistema contributivo esteso a tutti i lavoratori).
Il sistema contributivo del calcolo della pensione è il vero perno della riforma Dini; i lavoratori devono considerare questo sistema contributivo come un grosso libretto di risparmio dove ogni singolo provvede ad accantonare il 33% del proprio stipendio, in questo paniere immaginario con una distribuzione del 23,81% garantito dall’azienda e un 9,19% dal lavoratore (per lavoratori che superano 47.379 euro annui al 2020 si aggiunge un 1% in più).
Per stabilire il valore economico della pensione non basta solo il montante contributivo ma entrano in campo i cosiddetti coefficienti di trasformazione pensionistici. Questi variano rispetto all’età anagrafica, maggiore sarà l’età del pensionamento, maggiore sarà il coefficiente di calcolo pensionistico.
La riforma Dini prevedeva anche la revisione dei coefficienti ogni 10 anni, la riforma Fornero modifica la revisione in 3 anni e dal 2019 gli anni sono stati invece ridotti a 2. Il coefficiente di calcolo riguarda solo la parte contributiva chiamata quota C.montarnte,
Per un lavoratore che ha realizzato un montante contributivo di 300.000 euro e di retribuzione media annua di 28.000 euro e decide di andare in pensione a 64 anni nel 2021, con un coefficiente pari al 5,060, avrà un lordo pensionistico annuo di 15.180 euro; lo stesso lavoratore con lo stesso montante se decide di andare in pensione a 67 anni nel 2021, con un coefficiente di 5,575, avrà un lordo di 16.725 euro. Il coefficiente di calcolo viene naturalmente revisionato periodicamente. Un lavoratore di 62 anni, dal 1996 al 2009 il coefficiente era di 5,5414, dal 2010 al 2012 era di 5,093, nel 2013/2014 era di 4,94, dal 2016 al 2018 di 4,856, nel 2019/2020 di 4,932, nel 2021/2022 di 4,91: si deduce che dal 1996 ad oggi c’è stata una perdita di calcolo di coefficiente pensionistico pari al 13,49%. Davvero alta. Chi comunque ha iniziato a lavorare dal 1° gennaio 1996 e ha una pensione integralmente calcolata con il regime contributivo, può ottenere la pensione di vecchiaia con un’anzianità contributiva minima di almeno 20 anni, a condizione che l’importo della prestazione sia non inferiore a 1,5 volte l’assegno sociale. Si prescinde da questo importo minimo solo se l’interessato ha compiuto 70 anni di età e ha versato almeno 5 anni di contributi.
Notizia degli ultimi giorni a destare curiosità e grande interesse è proprio quella che giunge dal Governo: dal 2022 a 67 anni l’uscita dal lavoro per tutti o con 42 anni e 10 mesi di contributi (41 per le donne). Ritorna la riforma Fornero. Il Recovery Plan formalizza l’addio alla quota 100 e sarà sostituita da misure mirate a categorie con mansioni logoranti. E’ necessario convocare quanto prima un tavolo sulla previdenza, nel DEF non si dice nulla sulle pensioni, ma la scadenza di quota 100 si avvicina e bisogna prendere delle decisioni. Sono necessari interventi specifici che riconoscano il lavoro di cura delle donne, i lavori gravosi, aiutino i disoccupati con età avanzata e le categorie fragili. E’ indispensabile definire alcuni aspetti relativi ad una questione così delicata come quella del sistema pensionistico che ha importanti risvolti sociali. Sarà importante ribadire al Governo la necessità di raggiungere una “flessibilità ragionata” che consenta l’accesso alla pensione a partire dai 62 anni di età. Bisognerà mirare alla separazione della previdenza dall’assistenza che renderà evidente, anche in Europa, l’assoluta sostenibilità del nostro sistema previdenziale. Non ci resta che aspettare.