Lo so è difficile da credere ma a dire di Macario c’è. Il pastore Macario è sempre vissuto con il suo gregge, d’inverno nel bosco e in estate in costa in “località finocchi”, così chiamata per la proliferazione di questa pianta selvatica. Quella volta transitavo sulla provinciale giù a valle, tornavo dalla città e non vedevo l’ora di rientrare a casa. D’improvviso la macchina cominciò a sbandare sulla destra, il classico modo in cui si fora uno pneumatico. All’improvviso il cielo si caricò di nuvole portatrici di pioggia, oramai ero rassegnato ad usare il ruotino per andare poi via da lì. Perbacco! Non vi dico la faccia che feci quanto vidi entrambi gli pneumatici di destra completamente sgonfi. Non c’era nessuna cosa che potessi fare anche perché quando sei sfortunato… Il cellulare, unica speranza, si era scaricato poco prima e la strada dove mi trovavo non era molto frequentata. Memore delle scorribande da bambino fatte in quei luoghi a caccia di frutta, decisi di avviarmi a piedi seguendo il ricordo di un tragitto che tagliava per le vigne ed il bosco. “Poca strada a piedi” mi dissi pensando alla scorciatoia, per la macchina ci avrei pensato l’indomani. Sicuro di ricordare bene quel sentiero tracciato da volpi e da altri animali selvatici, non pensavo che negli anni trascorsi fosse molto cambiato, poi avrei fatto un bagno nei ricordi di quel periodo della vita per tutti molto felice. Il bagno fu l’unica previsione azzeccata, appena inoltrato nei campi una fitta nebbia ridusse la visibilità a pochi metri.
Quando cominciai a pensare seriamente che volpi e selvaggina avessero cambiato abitudini modificando il sentiero cominciò a piovere, con goccioloni che arrivavano giù, in più rapidamente calava il buio. Non mi restava che proseguire, ormai sapevo che ero più vicino al paese. Mi accorsi nell’oscurità calante che i pali dai vigneti erano diventati fitti ed alti, alzai gli occhi dal sentiero ormai avevo sbagliato direzione, ero finito in mezzo al fitto bosco e pioveva, accidenti e come pioveva. Non sapevo più cosa fare, se fosse il caso di abbandonarmi ad un nervoso pianto di commiserazione o ad una isterica risata. Fu proprio mentre non sapevo cosa decidere che sentii una voce vicina “giuvinò ma addo jat, non viriti ca chiove?”. Era Macario, il mitico pastore, nel bosco, il suo bosco. Mi portò nella sua residenza invernale vicino all’ovile. Una struttura rotonda fatta di grossi tronchi, coperta di muschio, il pavimento di tavole con un buco al centro per il fuoco che era scoppiettante ed un’apertura nella volta dalla quale usciva il fumo. Si sentiva solo il rumore del vento degli alberi e di tuoni lontani. Mi fece togliere i miei vestiti zuppi di acqua, dandomi un maglione ed un vecchio pantalone militare. Ripose i miei abiti ad asciugare, mi spiegò che non era il caso di muoverci prima che fosse giorno. Macario divise con me la sua cena, pecorino ed olive e per conciliare il riposo mi chiese di bere un sorso di succo di more fermentato. Ci coricammo su due pagliericci, attenuai il rossore delle braccia, il pastore Macario raccontò storie d’altri tempi, quando nei boschi vivevano mitiche creature insieme agli uomini. Mi raccontò di un posto che fluttuava tra il vero e la fiaba, tra la fede e la superstizione. Era una storia che la sua famiglia tramandava di padre in figlio da tempo immemorabile, da quando un suo avo era un pastore in quello stesso bosco. Il racconto parlava di un luogo ove stazionavano le anime dei nascituri, si proprio così, queste anime stavano lì ad aspettare di essere abbinate ai bambini che venivano al mondo. Su questo fantasmagorico narrare di Macario il sonno mi avvolse.
Stava appena albeggiando quando fui svegliato dal mio ospite. Il sonno mi aveva ristorato, gli abiti si erano asciugati, facemmo colazione con pane di mais intinto nel vino. Macario mi disse di seguire Argo, il suo cane che mi avrebbe condotto a destinazione, mi salutò e scomparve con il suo gregge. Argo mi precedette su di un sentiero che solo lui probabilmente vedeva. Ogni tanto si fermava voltando il capo, per sincerarsi che lo seguissi. Giunti al margine degli orti già si intravedevano le prime case del paese, il cane si fermò, mi leccò la mano e tornando sui suoi passi scomparve nel folto bosco. Telefonai al meccanico, recuperammo la macchina e nei giorni successivi non potei fare a meno di pensare a Macario e alla storia delle anime, mi ripromisi di andarlo a ringraziare alla prima occasione. Dopo circa due settimane tornai a casa. Il Natale si avvicinava ed io mi domandavo come lo avrei trascorso, in quel tempo vivevo da solo e volevo organizzarmi. Dopo cena mi misi in poltrona aspettando l’ora per coricarmi. In quel momento di relax pigri pensieri attraversarono la mente, il Natale, la festa della natività, così per caso pensai a Macario e alla leggenda delle anime in attesa di essere abbinate ad un corpo. Senza rendermene conto il sonno mi vinse. Mi ritrovai in quel luogo che mi era stato descritto da Macario. Avevo la sensazione di essere in uno spazio di cui non coglievo i confini, pervaso da un’aurea perlacea che non dava luce ma nemmeno buio. Avevo condizione del mio essere, ma sembravo invisibile alle forme non ben definite che popolavano quel sito. Passeggiavano in gruppi di tre o quattro, sembravano fatte di un qualcosa che andava tra lo spirito e la materia, giusto quel tanto da renderle distinguibili.
Il loro discorrere riguardava il gran momento, quello di essere chiamate all’abbinamento. C’era qualcosa di impalpabile come un’ansia che elettrizzava l’ambiente, dapprima non capii, poi a furia di ascoltare i loro mormorii mi fu chiaro, avevano paura. Quelle entità già vive ma ancora non nate non sapevano come fosse il mondo e che cosa si dovessero aspettare una volta congiunti ad un umano e passare con lui alla vita. In attesa di sapere se l’apporto degli umani le nobilitasse o le perdesse, un refolo di vento fece sbattere la persiana e questo mi svegliò, capii di essermi appisolato davanti alle tele, cosa che mi capitava spesso dopo cena. Si era fatto buio, era tempo di mettermi a letto, la giornata seguente sarebbe stata impegnativa. Non potei fare a meno di pensare al sogno fatto e mi chiesi: ma se queste anime conoscessero che realtà c’è, sebbene il loro apporto, sarebbero così ansiose di venire al mondo? Ma davvero si avrebbe voglia di nascere se si conoscesse l’obbrobrio che è diventato questo pianeta, lo stato in cui l’abbiamo ridotto? Da Adamo in poi siamo tutti complici e colpevoli. Prima di spegnere la luce mi dissi che di lì a poco sarebbe venuto Natale, la nascita per antonomasia. Buon Natale a tutti, e felice Anno Nuovo, pardon felice vita!
Vi saluto e sono L’autoferroagricolo!