La tribù degli indiani metropolitani, che a quei tempi bivaccava nel non ridente capoluogo irpino, non seppe fare di meglio che scatenarsi in fieri duelli di giovani cervi. Motivo di tanto attivismo era stata l’improvvisa apparizione nella tribù di una consorella del nord detta la “bergamasca”. Anche io partecipai al duello, non perché nella la mia diversità non fossi eguale o migliore di altri, ma solo perché la “preda” serviva ad essere esibita al fine poi di conseguire il titolo di “casanova” dell’anno. In tutta onestà, anche se all’epoca agivo molto più per istinto, era già radicato in me il concetto che il gentiluomo gode e tace. Già allora certe “singolar tensioni” mi infastidivano, me ne tenevo alla larga. Una sera ero da solo nella mia utilitaria parcheggiata in posizione panoramica, guardavo le nuvole illuminate da lampioni che emanavano luce color ambra, si rincorrevano sullo sfondo di un cielo nero, ascoltavo la colonna sonora dei Jefferson Air Plane sparata dal fedele mangianastri, sul vetro sentii d’improvviso un toc toc. Un brusco rientro alla realtà, guardai stranito un viso angelico incorniciato da biondi capelli, due zaffiri al posto degli occhi. La bella bergamasca era bella davvero, tanto da giustificare i bramiti dei cervi indiani, e quella sera era in compagnia di Arialdo, un componente della tribù. Un indiano un po’ particolare, si teneva sempre di lato dalle perturbazioni che ogni tanto investivano il gruppo. Non che fosse spocchioso, una volta mi disse di trovare infantili certi comportamenti tribali.
Con lui ero sempre andato d’accordo, aveva il senso della misura, la giusta misura. Era stato scelto dalla bergamasca quale soggetto con cui condividere del tempo, quel tempo che sarebbe rimasta con noi. Lei non era un “animale” stanziale, non si fermava mai in un posto. Arialdo non era il più bello e nemmeno il più forte, non si pavoneggiava, non si metteva in mostra, forse era il più “bianco” degli indiani irpini, il più “normale”. Certamente era intelligente. Mi dissero che erano giunti a piedi sul poggio panoramico, anche per allontanarsi dagli altri che, dopo la scelta della bergamasca, non facevano più gli amiconi. Si sedettero in macchina con me, sostituii la musica con una cassetta di Chopin. Per qualche minuto guardammo le luci in lontananza, pensavo che Arialdo l’aveva spuntata sugli altri, o meglio, la bergamasca lo aveva scelto proprio perché era sicuramente uno intelligente. Ad un tratto mi fu chiesto di raccontare una storia ed io non so perché cominciai a parlare dell’intelligente più normale che conoscessi, Ulisse. Raccontai loro dell’infanzia di Ulisse, un bambino nei boschi sulla costa a Nord della sua isola, in casa del nonno materno Autolykos, il re bandito che gli insegnò la caccia al cinghiale, parlai del ritorno ad Itaca con il padre Laerte, il Re pastore, uno degli argonauti nell’impresa del vello d’oro. La scelta di Penelope, sua moglie, non bella come la sorella Elena ma dal fascino più terreno. Parlai del rapporto con gli altri tre della Grecia, la parola a loro data lo costrinse a non veder crescere il figlio Telemaco. Parlai della guerra di Troia e del dialogo con Agile, al quale su precisa domanda del Mirmidone, Ulisse rispose che l’unica sua arma era la testa, non era come lui, un semidio, Itaca era un piccolo regno nel mare occidentale, non una potenza come le signorie Micenee. Rispose inoltre: “tu non conosci la paura per te e per i tuoi cari, sappi che essa quando mi assale fa si che io possa difendere meglio me stesso e chi amo, o solamente, uso le armi che ho“. E narrai il ritorno a casa, tra incantesimi di dei maligni, donne bellissime, raccontai di come questo uomo fosse riuscito, grazie al suo essere solo sé stesso, a rivedere l’amata Itaca, ad abbracciare la moglie Penelope e il figlio Telemaco, il padre Laerte. Come avesse lavato le offese fatte alla sua regalità dai Proci e contrariamente ad Agamennone o Diomede, morire nel suo letto di serena vecchiaia. Tutto ciò essendo solo un uomo. Quando finii di raccontare la storia la bergamasca ed Arialdo mi guardarono con espressione sognante, che bello dissero. Fuori dalla macchina l’alba si impegnava a scacciare la notte. Li accompagnai a casa di lui e ci salutammo con un abbraccio. Non li ho più visti. Seppi dopo tempo che Arialdo fu trovato in un vicolo di una città del Nord, con un ago nel braccio, morto. La bergamasca pare fosse a Tangeri. Mi rimane nell’animo un ricordo di tenerezza, fu una bella serata, ma il tempo scorre.
Vi saluto e sono l’autoferroagricolo