Quando Xavier era infante, la piazza del paese aveva ancora un ruolo, molto simile a quel posto che una volta si chiamava Agorà, non come oggi un semplice parcheggio di “carrozze senza cavalli”. Più o meno la scena era sempre la stessa, le donne d’ogni età in chiesa la domenica all’ultima messa, quella che finiva a mezzodì. Gli uomini, beh i maschi, tutti ai piedi del sagrato a riempire lo spazio con capannelli più o meno numerosi. C’erano tutti indipendentemente dall’età dai cinque ai novanta anni, i più piccini o più grandi con le donne in chiesa, anch’esse senza distinzione di età. Xavier era affascinato dal brusio di fondo che tutti quei discorsi rivenienti dai gruppi d’uomini creavano, come una musica di sottofondo. Egli andava da un gruppo all’altro captando scampoli di ragionamenti che andavano dal raccolto dei pomodori, alla stima della futura ressa delle olive. Ma quel che più di tutto attraeva Xavier erano i racconti degli anziani. Fu proprio una di quelle domeniche di tarda primavera che il nostro si fermò con altri coetanei ad ascoltare una storia vissuta, così diceva il narrante. Chi parlava era conosciuto come Natale u’ ruospo, perché questo soprannome non era dato saperlo, la cosa si perdeva nella notte dei tempi chissà quale ascendente se l’era guadagnato. Immaginate la scena: quattro o cinque ottuagenari e una selva di bambini che non arrivava alla prima decade di vita, lì a bocca aperta ed occhi sgranati ad ascoltare la storia di Natale. Lui con voce ispirata narrava il contesto in cui sessanta anni prima si svolsero i fatti. A quel tempo era un giovine di venti anni ed era andato in un paese vicino al seguito dello zio per riparare il tetto di un magazzino, proprietà di un ricco commerciante. Fu proprio durante quei dieci giorni, tanto durò il lavoro, che Natale vide passare Gelsomina. La ragazza passava tutti i giorni verso le undici, con in testa un cesto contenente la colazione del padre ch’era in campagna a dissodare il terreno. La figliola era carina, guarda oggi e guarda domani ella si sentì osservata. Un giorno voltandosi gli occhi di Gelsomina incontrarono quelli di Natale. Tanto bastò al giovine perché, finito il lavoro, la domenica successiva si recasse alla messa nel paese di lei. Quando la funzione finì, nell’uscire, vicino alla pilla dell’acquasanta Gelsomina e Natale si videro, sì sorrisero e fu sufficiente perché il giovinotto si recasse a casa di lei per chiederne la mano al padre. Tutto andò bene, di lì a qualche giorno furono fissate le nozze per la primavera a venire. Natale ebbe il permesso di recarsi da Gelsomina il sabato sera, cenare con tutta la famiglia di lei e fare ritorno a casa sua. Per fare ciò il nostro innamorato percorreva a piedi – in quei tempi si camminava a piedi – circa dieci chilometri tra andata e ritorno. L’inverno era passato ed una sera il buon Natale si trattene più del solito per definire gli ultimi accordi per le imminenti nozze. Riprese la via di casa ch’era ormai notte fonda. La fortuna era che ci fosse una magnifica luna piena a rischiarargli il cammino. Natale passava sempre per i trattori che tagliavano la campagna sennò i dieci chilometri sarebbero stati molti di più. Così quella sera, camminando con passo fermo e col cuore dolce, Natale si incamminò per la strada che oramai conosceva bene, fu a metà di essa, presso un incrocio, che vide vicino ad una siepe un agnellino. Erano tempi di fame trovare un agnello incustodito su una strada deserta a notte fonda senza nessuno in vista non era considerato un furto ma un terno al lotto. Natale ancora incredulo per la fortuna toccata, prese l’animale se lo caricò in spalla ed ancor più veloce si incamminò sulla via di casa. Man mano ch’egli si apprestava ad entrare in paese l’agnello dava segni di irrequietezza, ma il giovine pensando ai giorni a venire avrebbe consentito a tutta la famiglia, fratelli e sorelle comprese, la possibilità di avere sulla tavola della carne, come alla festa del santo patrono, di buon grado accettava il dimenarsi dell’ovino. Giunto che fu all’ingresso del centro abitato ove era la chiesetta della S.S.A, l’agnello cominciò a dimenarsi con insolita violenza considerando la sua stazza, a belare non come un infante di pecora ma con verso greve e allarmato. Nonostante gli sforzi di Natale, che pur era giovine e vigoroso, l’agitarsi della bestia era incontrollabile. Natale si vide costretto ad allentare la presa buttando l’agnello in terra disse d’istinto; “ma sei diavolo o che sei?” Allora si sentì forte e chiara una voce cavernosa dire per bocca dell’agnello: “perché, chi pensavi io fossi?”. I talloni di Natale arrivarono alle spalle, per quanto veloce fuggì. Ed ora sessanta anni dopo raccontava ai bambini in una domenica di sole l’esperienza fatta.
Vi saluto e sono L’autofferoagricolo!