“Perfetti sconosciuti” è un film del 2016 diretto da Paolo Genovese che potrebbe rappresentare il titolo da assegnare ad alcuni intrepreti della favolosa cavalcata che il team di mister Spalletti sta realizzando nella competizione della massima serie di calcio. Interpreti “sconosciuti” e accolti con non poco scetticismo all’ombra del Vesuvio, tuttavia a costoro è bastato pochissimo tempo per mettere in risalto le qualità possedute e rilevarsi quali “perfetti” elementi di un mosaico a dir poco straordinario.
La critica nazionale e locale, relativamente al calcio mercato della scorsa estate, non esitò ad esprimere un giudizio mediocre sull’operato della società di De Laurentiis, opinione che ha dovuto necessariamente cambiare in corso d’opera. Scetticismo, ad onor del vero, che inizialmente serpeggiava anche nel popolo partenopeo; le cessioni di Insigne, Koulibaly, Mertens e Ruiz destavano non poche preoccupazioni rispetto alle ambizioni di una tifoseria assetata di trionfi ma che comunque non faceva mancare il proprio sostegno fin dai primi giorni del ritiro di precampionato. Ed è qui che entrano in scena i “perfetti sconosciuti”, individuati e successivamente acquistati a valle di un grandissimo lavoro di scouting e frutto di una programmazione di impresa lungimirante realizzata con una capacità di visione straordinaria della società calcio Napoli; un mix speciale con una governance snella e unica per certi versi dove le doti manageriali, come quelle del direttore Giuntoli ma in generale dell’intero gruppo di lavoro, rappresentano senz’altro un valore prezioso.
L’innesto di atleti come Kim Min-jae e Khvicha Kvaratskhelia, nominativo, quest’ultimo, la cui dizione, di per sé complicata, muta a seconda di chi lo pronuncia, erano quantomeno un’incognita per l’arduo compito assegnatogli: come detto sostituire un pilastro come Koulibaly nel reparto difensivo non era compito facile così come, succedere a Insigne non era affatto agevole. Ma loro ci sono riusciti e finora alla grande. Alla giovane età entrambi coniugano professionalità, doti tecniche e agonistiche, sale necessario per atleti che hanno “fame”. Da una parte il coreano, autentica muraglia che respinge tutto quelle che gli capita a tiro, dall’altra il georgiano, dall’aspetto timido, che sul rettangolo verde si trasforma e con dribbling insolente manda in confusione le difese avversarie e in estasi i tifosi partenopei. Ma il mosaico stupefacente è composto da ulteriori pezzi altrettanto pregiati e tra questi, senza fare torto agli altri, meritano un richiamo particolare il nazionale nigeriano Victor Osimhen entrato oramai nei radar dei team più blasonati d’Europa, il centrocampista Lobotka autentico maestro di un’orchestra intonata e il capitano Di Lorenzo le cui sfuriate sono compensate sul versante opposto da quelle di Mario Rui, atleta completamente rinato. La rosa, poi, è stata completata con calciatori di assoluta qualità, funzionali alla causa e che farebbero comodo a qualsiasi big europea; gente seduta in panca come il cholito Simeone, che tutto quel che tocca diventa oro, o come, per citarne alcuni, Raspadori, Ndombele e Olivera rappresentano, verosimilmente, un valore aggiunto per le ambizioni della società ma soprattutto per i desideri di un intero popolo.
E qui che però bisogna arrestare i pensieri, Partenope deve attendere e il suo popolo con lei, peraltro le nostre tradizioni scaramantiche lo impongono, quella “parola” non va pronunciata, tutti zitti, toni bassi evitando proclami trionfalistici fino a quando la matematica non lo stabilirà e il sogno diventa realtà.