Quelli registrati all’inizio dell’anno sono dati più che positivi ed incoraggianti che hanno palesemente mostrato come fare di “necessità virtù”. Protagonista di questo favorevole trend la vendita online la cui forza è stata quella di diventare unica, indiscussa e sovrana alternativa di commercio per sopperire al mancato introito in tutti i settori merceologici, causa la chiusura delle relative attività al dettaglio. In questo scenario apocalittico di profonda incertezza le più disparate aziende di grande piccola o media entità si sono organizzate creando vetrine virtuali che, sfruttando le basilari tecniche di digital marketing, hanno provato a restare in piedi mediante il web. Il riadattamento ha effettivamente funzionato, al punto da far registrare, secondo le statistiche rilevate dall’Osservatorio e-Commerce B2C del Politecnico di Milano, un business da 23,4 miliardi in prodotti, +31% rispetto al 2019 e 7,2 miliardi in servizi, per un totale di 30,6 miliardi di euro, proiettando le stime per il 2021 ad una crescita del 37%. Nel dettaglio i settori maggiormente interessati sono stati l’abbigliamento (+ 25%), l’elettronica (+ 22%), l’editoria (+ 16%) e il food (+ 29%).
Imprescindibile la conseguenza: al pari delle vendite sono aumentate in maniera proporzionale anche le spedizioni. Sì, perché l’altro settore totalmente operativo che, nonostante la pandemia ha continuato in maniera incessante, senza alcuna sosta a lavorare, è stato quello dei corrieri espressi. Infaticabile e sempre operativa la flotta dei padroncini ha continuato ad effettuare consegne e ritiri adeguandosi alle numerose criticità, ai nuovi standard di sicurezza e ai faticosi ritmi notevolmente complicati dai mutevoli avvicendamenti emergenziali giornalieri.
Detentore del boom di spedizioni è stato, senza ombra di dubbio, il colosso Amazon che in tal modo è diventato una delle più grandi aziende al mondo, al pari di Microsoft ed Apple in termini di fatturato annuo. La sua repentina crescita ha fatto sì che le azioni schizzassero vertiginosamente raggiungendo massimi da record, il tutto ovviamente accompagnato da mosse strategiche quali: incremento delle giornate promozionali come il Black Friday o il Cyber Monday, un maggiore coinvolgimento dei clienti Prime e dell’utilizzo del comparto cloud con Amazon Web Service (AWS).
Tuttavia come ogni medaglia anche questa ha il suo rovescio ed esso purtroppo non è del tutto positivo. Indubbia infatti è l’importanza della questione legata alla campagna assunzioni che un simile evento ha scaturito. Quasi duecentomila unità sono state le risorse inserite per fronteggiare la domanda e quindi rendere il servizio sempre eccellente a 360° su tutti i fronti aziendali dal semplice customer service al delicato settore della cyber security e per ultimo, non di certo per ordine di importanza, gli operatori impegnati nella gestione degli stop giornalieri per ritiri e consegne: tutti precari da stabilizzare nel giro di pochi mesi dall’assunzione.
Tre le motivazioni che, a distanza di un anno, hanno fatto accendere i riflettori in maniera negativa sul colosso delle vendite online c’è il mancato rispetto della promessa di trasformare i contratti inizialmente a scadenza in tempi indeterminati e le pessime condizioni di lavoro in termini logistici e di turnistica dei dipendenti durante il periodo emergenziale. Ciò ha avuto come ripercussione le numerose proteste da parte dei lavoratori un po’ in tutto il mondo, incentrate non solo sull’incresciosa stabilizzazione dei contratti di lavoro, ma anche e soprattutto sulle irragionevoli questioni alla base del famoso “algoritmo” che prevede un tempo massimo per la consegna di tre/quattro minuti. Tale imperativo costringe i driver a ritmi serrati il cui rispetto tende a stremarli e non garantire loro la doverosa attenzione e serenità alla guida, nonché la mancata osservanza delle rigide norme di sicurezza che pertanto li espone ad un rischio contagio altissimo. Non da ultima, terza nota dolente, la fondamentale tutela dell’articolo 42 ovvero “la clausola sociale” che pare che Amazon non vorrebbe più rispettare. Essa garantisce infatti che, in caso di cambio di azienda appaltante, quest’ultima è obbligata a tenere i lavoratori dell’azienda con cui decade l’appalto e, se ciò venisse meno, anche i lavoratori contrattualizzati a tempo indeterminato si ritroverebbero senza lavoro.
La domanda nasce spontanea: perché di fronte ad una simile opportunità positiva vengono tuttavia lesi i diritti dei lavoratori che sono la forza, nonché benzina che permette a tutta questa gran macchina d’affari di rimanere in moto carburando milioni di euro di fatturato? La riflessione è d’obbligo poiché di promesse, come spesso accade nella vita, ne sono state fatte davvero tante, ma esse purtroppo ancora una volta restano fatti intangibili su cui poggiare le dovute smentite, per rasserenare un settore lavorativo che resta scontento, sottopagato e per nulla gratificato.