Dai quattro ai dodici anni di età, ogni volta che la scuola chiudeva per le vacanze estive, mia madre ed io prendevamo un treno. Il lunghissimo convoglio trainato da una locomotiva a vapore ci portava dalla città del settentrione, dove eravamo nati e dove risiedevamo mio padre ed io, in un lungo viaggio fino a Napoli. Giunti nella città partenopea, una littorina ci portava nell’alta valle del sabato, da lì una carrozzella per giungere a destinazione. Dopo i primi anni il trasporto cambiò. Il treno divenne elettrico, il cavallo fu sostituito da un macchina chiamata giardinetta con la carrozzeria fatta di legna che ricordava tanto il precedente mezzo di trasporto. La meta di questo viaggio era la casa di mia nonna materna, nel paesino dove era nata, dove aveva cresciuto i figli e dove trascorreva la sua dignitosa e solitaria vedovanza. La prima parte delle vacanze le passavo come un puledro uscito dal recinto, sempre a correre per prati con coetanei ed amici. Negli ultimi giorni di luglio ci raggiungeva il babbo con la sua Fiat 1100 3 b. Il fascino del suo racconto, il suo viaggio di circa 700 km (allora non esistevano autostrade) per un bambino sembrava un racconto avventuroso come quelli di Ulisse. Ma tutto passava in secondo piano davanti al programma di agosto, sempre uguale ma sempre gradito. Come ogni anno erano previste quattro settimane al mare a Salerno, la casa in affitto era ubicata in modo che bastava attraversare la strada per tuffarsi nelle turchine acque. Dopo un po’ i miei genitori decisero di cambiare l’automobile. Anche io fui coinvolto dall’euforia per l’acquisto. Si trattava sempre di una Fiat 1100 ma aveva gli stop più alti, la chiamavano la millecento con le code. Ormai ero giunto intorno ai dieci anni e il programma estivo non era mutato. Fu deciso, come al solito, che andassimo con il treno, la consegna della nuova autovettura avrebbe consentito a mio padre di raggiungerci nei tempi canonici. Come spesso avviene, la consegna della 1100 con le code slittò, non si seppe mai per quale oscura ragione. Il viaggio al mare si allontanò e nelle previsioni il soggiorno sarebbe stato più breve. Dovevo ingannare l’attesa, ero deluso ed irritato. Mi unii, così per passare il tempo, ad un gruppo di amici più o meno della mia età, con l’obiettivo di andare al cinema. Il locale dove si proiettavano le due pellicole (due non una) erano in un paese vicino, a circa 4 km prendendo una scorciatoia per i boschi di castagno, non asfaltata e praticabile a piedi o su un asino. Costo dell’ingresso: 30 lire. Si fece la colletta e sì parti.
Abituato alle sale che d’inverno frequentavo in città, vi risparmio la descrizione dell’impatto, potete immaginare.. Entrammo all’interno del buio, in una cacofonia che tutto avvolgeva, circondati da sagome scure che ricordavano il teatro cinese e, come volle l’Onnipotente, riuscimmo a trovare posto tutti insieme. La cosa che mi sconvolse di più furono le urla che ogni tanto uscivano dal petto di quelle anime penitenti. Ricordo che si poteva interpretare l’urlo più o meno così: “Francè, rimitti arreto..”. A tale richiesta sullo schermo si aveva un effetto moviola che riportava indietro l’immagine finché si sentiva dal buio alzarsi un acuto e possente vabbuò. La proiezione riprendeva, ogni film poteva durare da quattro a cinque ore. Mi fu spiegato che gli spettatori si distraevano facilmente, presi dai loro discorsi e, quando questi si esaurivano, riprendevano interesse per la proiezione e avendone persa una parte, facevano riavvolgere la pellicola fino al punto in cui si erano distratti. Tutto questo mi è tornato alla mente nel corso del tempo, procurandomi sensazione di tenerezza per un mondo ingenuo che non c’è più. Ma ad onor del vero, negli ultimi vent’anni, mi è capitato di ricordare quell’urlo “Francé rimmitti arreto“, ogni volta che un governo saliva ed un altro andava a casa. Però mai come in questa ultima infuocata estate, quell’episodio fanciullesco mi ha assillato. Non c’è più tenerezza per un mondo scomparso, ancor di più per quel che esso è diventato. E’ inutile gridare “Vabbuò“, continuiamo a tornare indietro. Il più duro dei flagelli è l’invidia dei fratelli. Bisogna tenere la memoria, se la si perde non si capisce.
Vi saluto e sono L’autoferroagricolo!