Pacomio, detto l’indiano perché di cognome faceva Geronimo, quel giorno stava godendosi un piccolo piacere della vita, una cosa piccola piccola, una siesta.  L’ultimo periodo lavorativo era stato per Pacomio un vero e proprio girone d’inferno, ne era uscito bene ma sfinito.  Cosa strana, aveva cominciato a desiderare un riposino post-pasto come un cane sogna un osso.  Era ben strano, il gesto non rientrava nelle sue abitudini,  perciò Pacomio nel primo pomeriggio libero si crogiolava in questo desiderio, ancorché per lui nuovo, conosciuto dai più col termine ”siesta”. Il suono della porta d’ingresso, imitazione delle note emesse dal famoso Big Ben, arrivò a Pacomio attraversando pigramente la cortina di nebbia “sinestesica” in cui i suoi sensi fluttuavano.  Non un fastidio, appena una consapevolezza quel din don dan. Poi tra la ovattata cortina che avvolgeva il nostro, si fece strada un cicaleccio, quel classico modo di parlare con toni smorzati tipico delle persone che non vogliono disturbare, né farsi sentire. Ma ormai un sottile filamento aveva agganciato le proprietà cognitive dell’indiano allo zufolare proveniente dall’altra stanza. Pacomio, completamente immerso nella sua estasi “sinestesica”, si ritrovò come doppiato, oziosamente senza nessun input razionale, si trovò su un piano bidimensionale, una parte di sé “siestava”, l’altra, agganciata al borbottio esterno, registrava quei segni che chiamiamo parole.  Chi parlava era Orzola l’amica del cuore di sua moglie Domitilla, la prima raccontava all’altra le pene procuratele da suo figlio Zaccaria, così fu che Pacomio senza volerlo fece un viaggio nel tempo. L’Orzola diceva all’amica che da quando Zaccaria aveva iniziato un’amicizia con tale Lucilla, ragazza di ampie vedute, il guaio, raccontava l’addolorata madre, stava nel fatto che Zaccaria non era più lui.  Il rapporto con Lucilla aveva ridotto a sentir Orzola un bravo figlio in un’apatica persona, che viveva della luce riflessa della sua storia con la signorina.  Venivano indicate varie motivazioni per dare un senso   al nuovo Zaccaria, alla fine un trionfo su tutte: “c’hanno fatto na’ fattura”.  Le due amiche fecero una   puntuale disamina di come tecnicamente ciò sarebbe stato fatto, presero in ipotesi vari ‘’rituali’‘ come filtri d’amore, e via via tutto l’armamentario appreso dalle nonne quando erano infanti.  Pacomio si ritrovò immerso in un mondo fatto di astruse formule e disgustosi rituali dove si utilizzavano ingredienti repellenti per dare corpo   a nauseanti intrugli da propinare alla persona ‘’amata”.  L’assunzione di questi preparati garantiva   il legame di dipendenza del soggetto prescelto.  In quello stato di animazione sospesa indotto dalla siesta ‘’visioni’‘ si affacciarono alla mente del nostro, streghe e fattucchiere roghi ed indemoniati, inquisitori più o meno santi.  Ai lati della sua semi onirica   visuale un cielo   plumbeo, cupo appesantiva l’atmosfera, in un   susseguirsi   di   superstizioni ed   idolatrie.  Gli vennero in mente liturgie diverse come la Santeria, o il Vudù, ma sempre nutrite nello stesso brodo di coltura, l’ignoranza.  Ma come, si disse Pacomio, tutto a rotoli, tutta l’evoluzione, il secolo dei ‘’lumi’‘, la liberazione delle masse? Tutto   inutile si ritrovava in pieno ventunesimo secolo a sentire di fattucchiere e stregonerie a casa sua!  Le due donne non trovarono una posta precisa ove indirizzare le contromosse per “liberare” Zaccaria dalla nefasta influenza della “signorina”, ma si ripromisero di rivedersi per agire. Non più distolto dal chiacchiericcio Pacomio si girò su un lato per “siestare” ancora, aveva trovato una spiegazione agli affanni di Orzola, e un proverbio che più o meno recita così “Tira cchiù nu p…. di donna che ciento catene”.

Vi saluto e sono l’Autoferroagricolo!