Ho incontrato Raniero l’altra sera, mentre passeggiavo nel viale del parco. Gli “anta” ormai passati da un paio di decadi non avevano lasciato tracce sul volto di Raniero, il bel sorriso da simpatico gaglioffo era intatto. Ma che fine hai fatto? E tu dove eri? Avanti così per un po’ camminammo affiancati per un tratto del viale comunicandoci le “novità”, poi mi venne l’idea di proporre una pizza e passare la serata insieme. Fu così che decidemmo di andare da “Giacinto, mare e pizza”, piccolo ma ottimo locale posto ad ovest del vecchio porto, vicino all’arsenale.
Entrando sembrava tutto come lo ricordavamo, tavoli coperti da tovaglie a quadri bianchi e rossi, il bagliore della brace nel forno a legna ed il faccione rubizzo di Giacinto, solo un po’ più bianco di capelli e di farina. Sembrava di essere tornati indietro di molti anni quando di sera, specialmente sotto esame, lasciavamo la vecchia casa presa in fitto e tutti e quattro con i soldi contati in tasca si veniva qui, da quel ragazzo che aveva aperto da poco la pizzeria. Ci accoglieva un Giacinto meno in carne, ci chiamava la banda dei quattro e con un sorriso ci portava le olive da sgranocchiare in attesa delle pizze. Si, allora con me e con Raniero c’erano Ubaldo ed Amos, inseparabili, ci dividevamo la casa, la pizza e le emozioni tipiche di quella età. Il tempo era passato e la vita a volte divide, Ubaldo era andato in Australia a fare l’ingegnere minerario, Amos medico in Perù si era innamorato e lì era rimasto. Noi quella sera, per caso, c’eravamo ritrovati e per evocare i due amici lontani eravamo tornati lì, la nostra tana come la chiamavamo. Io mi sentivo come se mi mancasse una parte del corpo, Raniero mi confidò: è bello essere qui ma mi sento menomato. Insieme alle pizze Giacinto portò al nostro tavolo delle cartoline, alcune ingiallite, un paio più recenti.
Erano dei nostri amici che dal loro angolo di mondo salutavano il ristoratore e pregavano Giacinto di salutarci se mai ci avesse visto. La cosa meritava un brindisi, ne furono fatti più di uno, con Giacinto promosso sul campo quale ausiliario permanente; la banda diventò dei quattro più uno. Finiti i brindisi e i ricordi, salutato ‘’l’ausiliario”, ci avviammo con passo lento, Raniero aveva uno sguardo lontano, attribuii la cosa alla nostalgia dei ricordi e lo dissi. Non solo per questo, mi rispose l’amico, da un po’ di tempo un’altra persona mi fa riflettere sul tempo del mio vissuto. Non seppi cosa dire, restai in attesa, se ne avesse voluto parlare Raniero, ne avrebbe parlato. Lui mi parlò con tono sognante, come si parla di un bene prezioso e delicato, mi descrisse questo sentimento che mai prima aveva provato per alcuno. Mi disse che era un legame fortissimo, che la distanza non attenuava, era costante e continuo come un placido fiume in primavera. Un qualcosa che andava al di là del tempo e dello spazio, dolce come la vita stessa, consapevole come la saggezza, acerbo e maturo allo stesso tempo.
Mentre mi confidava questo, cercavo le sensazioni e Raniero aveva lo sguardo luminoso e i lineamenti distesi. Aggiunse che grazie a tutto ciò riusciva a percepire il suo vissuto e il divenire. Era giunto al punto di comprendere, sia pur in modo vago, quale era il ”vero” concetto di immortalità che si può concepire in vita. Io ascoltavo con attenzione e affetto, volevo bene a Raniero, ma non riuscivo a comprendere pienamente ciò che mi diceva, avevo un vago sentire ma non capivo. Poi non molto tempo dopo è piombata nella mia vita come un benefico “uragano” la più bella bambina del mondo, mia nipote. Aveva ragione Raniero su tutto, oltre quello per i figli può esserci solo il futuro.. i nipoti.
Vi saluto e sono l’autoferroagricolo!